Un'Assassina Misericordiosa: La Misteriosa Accabbadora 0 Comments
In un’oretta di auto da Golfo Aranci si arriva al piccolo centro storico di Luras, dove si può visitare l’interessantissimo Museo Galluras che, con i 4000 reperti esposti nei tre piani di una tipica abitazione dell'Alta Gallura, testimonia la cultura sarda tra la fine del Seicento e la prima metà del Novecento, e dove è conservato anche il famoso e macabro martello che nei tempi andati veniva usato da singolari donne deputate a metter fine alle sofferenze dei malati senza speranza.
Una nota “noir” ma intrigante, tra la realtà e la leggenda: la Accabbadora, o Aggabbadora, colei che finisce, dallo spagnolo acabàr, porre fine. Come una parca, colei che spezza il filo della vita, colei che risolve le sofferenze di chi sta male senza rimedio, colei che dona la “buona morte” …Era infatti una specie di arcaica eutanasia quella che praticavano queste oscure donne che, quando il medico e la medicina avevano fallito, davano al malato terminale il “sollievo” della fine.
La figura dell’Accabbadora che accompagnava nell'aldilà il malato terminale era una cosa naturale come la figura della levatrice che aiutava a venire al mondo. Pare che spesso fosse la stessa donna a fare entrambe le cose; indossava l’abito nero se portava la morte e quello bianco se portava la vita.
C’era tutto un rituale da seguire quando la famiglia del malato decideva di chiamare s’Accabbadora. Inizialmente si metteva sotto il cuscino del malato un piccolo giogo in legno per tre giorni e tre notti per incoraggiare il morente a “tornare alla vita” del lavoro nei campi. Se non funzionava, si provava allora con l’ammentu, cioè si rammentavano al malato tutti i peccati commessi in vita perché il peso spirituale dei peccati fosse così greve per continuare a vivere, e quindi il malato spirava, oppure che si riprendesse per il timore di andare in inferno. Altrimenti lo si sottoponeva a un bagno in acqua gelata per calmare la febbre, spesso uccidendolo con una broncopolmonite fulminante. Falliti tutti i tentativi possibili, la famiglia decideva di chiamare l’Accabbadora, che arrivava di notte annunciandosi con la frase “che Dio sia qui”, con in mano un martello di legno di olivastro stagionato, lungo una quarantina di centimetri e largo una ventina, con il quale avrebbe dato il colpo mortale alla nuca del sofferente. Accompagnata nella stanza del malato, congedava la famiglia con il segno della croce chiudendosi all'interno della stanza sola con l’infermo, dove il “suo dovere” veniva compiuto.
Ho immaginato a lungo sui sonni dell’Accabbadora. Era in pace con la sua anima? Erano invece i suoi sonni visitati dai malati che aveva “aiutato”? Le tornavano in mente i volti che esalavano l’ultimo faticoso respiro e li cacciava con il ricordo del gioioso trillo di un neonato appena venuto alla luce?
Dell’Accabbadora se ne parla poco in Sardegna, ma la si trova nei libri. Era un lavoro necessario in un contesto dove si lavorava duramente per mantenersi e una persona in fin di vita portava grossi disagi e sofferenze. Doveva essere accudita, portando via tempo prezioso ai campi e al lavoro in generale. L’intervento dell’Accabbadora era quindi una pianificazione che consentiva di separarsi dalla persona cara, per un felice ricongiungimento nell’aldilà. Un vincolo strano con la Morte, quasi "una di famiglia" che aiutava a compiere il destino di un malato con un gesto pietoso. Non un’assassina ma l'ultima madre.
“Non aveva pianto molto mentre veniva via da casa dei Bastìu, ma ognuna di quelle lacrime aveva lasciato un solco nuovo sul volto dell'Accabbadora già segnato dal tempo” (dal libro “Accabbadora” di Michela Murgia)
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di Daniela Toti
In foto: il museo Galluras - foto di Laura Mor
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