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Sa Musca Macedda

Nella mitologia sarda, Sa Musca Macedda, (dal sardo: mosca macellaia) era un grosso insetto, la cui leggenda è diffusa in tutta la Sardegna, seppur con delle differenze riferite soprattutto alle sue dimensioni che variano da quelle di un grosso tafano, o di una grossa pecora oppure grande quanto la testa di un bue, ma sempre e comunque dalla puntura mortale. La leggenda della Musca Macedda è molto probabilmente rapportata alla zanzara anofele, causa della malaria che era tra i principali motivi di mortalità sull'isola sin da quando l’anofele fu introdotto, a partire dai secoli VII-VI a.C., dai Cartaginesi che cercarono di invadere la Sardegna e trovando l’orgogliosa opposizione delle popolazioni nuragiche, limitarono la loro invasione su alcune zone costiere (Cagliari, Nora, Tharros).

L'anofele costrinse gli abitanti della Sardegna ad una convivenza mortale con la malaria, in sardo sa malarika, il cui nome significa “aria insalubre”, fino al secolo scorso. La società agricolo-pastorale della Sardegna abbandonò la costa e i continui disboscamenti favorirono la diffusione dell'anofele. Il disboscamento che peggiora la situazione malarica della regione continuò ad alti ritmi quando l'Isola divenne la principale fornitrice di legno per le traversine delle ferrovie, che peraltro si sviluppano in continente e molto meno in Sardegna, proprio per la difficoltà di costruzione creata dalle zone paludose.

Le terre vicino al mare, quelle che grazie a Karim Aga Khan diventeranno dagli anni sessanta in poi fonte di ricchezza per chi le possedeva, erano neglette perché infestate dalle zanzare e quindi luoghi di morte per chi le frequenta.

La temibile zanzara assassina che con la sua puntura causava la morte per malaria, nella fantasia popolare divenne Sa Musca Macedda, una creatura mostruosa fornita di un pungiglione velenoso e mortale, con due o più occhi rosso fuoco e con il ronzio delle sue due grosse ali che veniva avvertito anche a distanza. Sa Musca Macedda proteggeva, dai cercatori indesiderati, i tesori che gli antichi abitanti avevano nascosto vicino a pozzi sacri, nuraghi, torri e castelli e forse in qualche modo correlati anche con i tesori de Le Janas.

Dopo l'Unità d'Italia il senatore e ministro dell'Agricoltura Luigi Torelli (1864-1865), iniziò ad occuparsi delle bonifiche nelle aree a maggior rischio di malaria: il cagliaritano, l'alto Campidano, la bassa Gallura, la Nurra (Alghero-Sassari) erano le zone più infestate. Alla fine dell'Ottocento i morti causati dal Plasmodium falciparum in Sardegna erano in media duemila all’anno.

Il primo scienziato a riconoscere il rapporto tra la malaria e le aree paludose fu Ippocrate, ma la storia di questa malattia lo aveva preceduto da secoli. In Sardegna la malaria, presente sin dalla notte dei tempi, viene ritenuta la causa di alcune modificazioni genetiche della popolazione sarda che hanno in qualche modo creato una sorta di immunità contro la malattia.

Alla fine della II Guerra Mondiale, la Rockefeller Foundation, in collaborazione con il governo dell'Italia repubblicana, lanciò il Sardinia Project, una campagna antimalarica che durò cinque anni. Gli americani infatti avevano dovuto affrontare la malaria sul fronte del Pacifico meridionale e avevano imparato a loro spese a combatterla con il chinino prima e con farmaci di sintesi, clorochina e quinacrina. Nel 1951 la Rockefeller Foundation dichiarò estirpata la malaria dalla Sardegna.

 

“Se non fosse pel mal di punta o per la malaria, soprattutto per la malaria, il villano camperebbe cento anni: ma la malaria, una volta entratagli in corpo, non ne esce, o finge di uscirne, e va e viene senza cerimonie come un amico di casa.” (Serafino Amabile Guastella 1819-1899)

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di Daniela Toti

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